giovedì 9 dicembre 2021

Se il nucleare è decisivo va dimostrato con i numeri

 Torna in auge il nucleare e credo sia opportuno richiamarne alcuni aspetti, in un’ottica scientifica e assolutamente non ideologica. Posizioni preconcette su temi tecnici e scientifici portano soltanto a dibattiti sterili, ne è una prova in questo periodo il dialogo che ruota attorno al Covid e alla necessità di vaccinare o meno quante più persone possibili. Riprenderò il tema in fondo all’articolo cercando di estenderlo su un piano più generale.


Si parte da una domanda essenziale: dato che il futuro sarà elettrico, ovvero la forma energetica prevalente con cui faremo quasi tutto sarà l’elettricità, diverrà indispensabile ricorrere alle centrali nucleari? Vale a dire, per alimentare motori industriali, piastre a induzione, ovviamente treni, illuminazione, elettrodomestici e tutto quanto è già elettrico, ma soprattutto l’enorme parco auto, moto, bus che elettrico lo diventerà, sarà necessario ricorrere alla fonte nucleare, che produce energia elettrica e non emette CO2? 

L’insieme delle fonti energetiche in Italia oggi è costituito da fonti fossili tradizionali in parte maggioritaria, da fonti rinnovabili, e da una quota limitata di importazioni dall’estero che include anche l’energia nucleare proveniente dalla Francia e dalla Svizzera, ma allo scopo di contenere le emissioni di CO2 e altri composti climalteranti ci si orienta verso una riduzione della quota fossile e un corrispondente aumento della quota rinnovabile. Se l’intero parco veicolare sarà convertito nei modelli elettrici, sarà sufficiente la produzione attuale - su cui si agisce contestualmente per ridurne la parte fossile - o sarà necessario un aumento della produzione di elettricità? Un eventuale aumento coperto da rinnovabili, o da altro? 

Si tratta del punto centrale, il perno su cui ruota il destino energetico del nostro Paese.

Il fatto che un convegno alla Camera il prossimo 15 dicembre definisca già nel titolo “Il nucleare decisivo per la transizione energetica”, proponendone al lettore le conclusioni prima dell’inizio, con la partecipazione di parlamentari e ministri, mostra con evidenza che una parte degli attori coinvolti vede un possibile ritorno del nucleare in Italia come una delle vie da percorrere. 


Impianti nucleari andrebbero ad incrementare la potenza elettrica a disposizione.  

La potenza efficiente lorda di generazione, al 31 dicembre 2020, è risultata pari a 120 GW, con un incremento di 1GW che ha causato un leggero aumento del +0,9% rispetto al dato dello scorso anno, in quanto l’entrata in esercizio di nuovi impianti, compresi termoelettrici di piccola taglia, ha compensato le grandi dismissioni e i depotenziamenti nel parco di generazione tradizionale - traggo dai Dati Statistici di Terna, pubblicati con regolarità e reperibili sul sito - mentre la potenza richiesta in Italia è sempre al di sotto di 60 GW. 

Queste chiarissime informazioni ci dicono due cose: una, che la potenza installata è circa il doppio del carico maggiore che si registra, un fatto ben noto da anni ma mai chiarito completamente essendo costituito dalla parte preponderante di generazione fossile tradizionale, due, che le dismissioni delle centrali più tradizionali e impattanti procedono col contagocce pur se beneficamente compensati da impianti più moderni. E’ giusto avere una riserva di potenza adeguata ad un Paese come l’Italia, ma il doppio sembra troppo. Aggiungere potenza nucleare significa aumentare ulteriormente la disponibilità, e come minimo occorre aver fatto bene i conti per capire se risulta necessaria oppure no prima di procedere ad un investimento ingente.

Sul fronte delle rinnovabili, sono ancora una quota minoritaria, pur se aumentata notevolmente negli anni, e devono aumentare per coprire le dismissioni degli impianti obsoleti tradizionali. 

Ma non c’è solo la produzione, risulta in effetti particolarmente importante il modo in cui si consuma l’energia, e in questo caso l’elettricità. Aumentare l’efficienza e azzerare gli sprechi di qualcosa che è sempre oneroso produrre è l’altra linea da seguire, perché comporta minori necessità di materia prima a parità di servizio. 


Esiste anche la possibilità che il nucleare sia per alcuni una scelta, un’opzione per rientrare nel sistema. A questo proposito, va ricordato il nucleare cosiddetto di Quarta Generazione, spesso citato.  Si tratta di un insieme di progetti tesi a rendere più economico e sicuro il reattore nucleare, a cui partecipano anche industrie e centri di ricerca italiani. I nuovi reattori allo studio presentano modifiche che intervengono su vari fronti, come la sicurezza, la taglia, il costo, ma sono a tutti gli effetti reattori nucleari a fissione, vale a dire basati sullo stesso concetto di tutte le centrali realizzate a partire dalla pila di Fermi del 1942. Non presentano nulla di radicalmente nuovo, soprattutto sul fronte del problema forse maggiore che riguarda la fissione, ovvero la produzione di scorie radioattive pericolose, che rimangono tali per periodi lunghissimi. Non abbiamo ancora realizzato un deposito sicuro adeguato per le scorie ad alta radioattività che possediamo; tornare al nucleare significherebbe produrne altre. Le caratteristiche geologiche del nostro Paese non aiutano in questo senso: non c’è un chilometro quadrato che non sia sismico, non abbiamo il deserto ma una stretta penisola densamente abitata, abbiamo vulcani e faglie ovunque, dove le aree non sono coltivate o industrializzate sono montagne. 

Il nucleare più innovativo rimane la fusione, ma questa è un’altra storia, ancora allo stadio di ricerca, lontano da una possibile applicazione commerciale. 


Questi sono pochi, semplici fatti, per un argomento che richiederebbe approfondimento migliore. La tendenza a parlare per pre-concetti, o pre-giudizi, è devastante in questo campi, perché finisce per instillare poco alla volta nozioni non verificate che poi diventano costruzioni fantasiose. Per decidere se “dobbiamo” tornare al nucleare nella fase della transizione ecologica dell’economia occorrono i numeri, ancora meglio occorrono scenari alternativi realistici fra cui scegliere con obiettività. L’unica possibilità che abbiamo per prendere decisioni funzionali al benessere della collettività riguardo temi idonei all’indagine scientifica è, appunto, la scienza. Si tratta dello strumento migliore che ad oggi siamo riusciti a costruire per comprendere il mondo naturale. Nel caso, è utile per organizzare la difesa da un virus che il nostro sistema immunitario non conosce, per esempio. Oppure, è utile per costruire strumenti tecnici che svolgano funzioni opportune, come produrre energia, per esempio. La medicina non è deterministica, e da tempo non lo è più neanche la fisica, ma restano comunque le migliori costruzioni umane in divenire in rapporto al mondo; non conosciamo ad oggi alternative che non siano fantasie. 

Non esiste nessuna scienza di regime, la comunità scientifica è internazionale, connessa, aperta nei suoi studi e nei suoi risultati. Sembrava scontato, ma ora sappiamo che non lo è, il Covid ha aperto una voragine di disinformazione che inghiotte anche persone colte, ma che non deve mettere a rischio il metodo scientifico. Per fortuna, il governo ha operato rispetto alla pandemia mantenendo fermo il punto principale, accantonando il pensiero magico alla base della parte migliore, per così dire, delle proteste, e operando con una progressività idonea a far comprendere l’entità del problema. 






sabato 4 dicembre 2021

Quasi mille contratti di lavoro in Italia: é giunto il momento che il Partito Democratico lanci un’iniziativa politica?

 Secondo il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), sono attualmente vigenti in Italia 985 Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (Ccnl), depositati presso il CNEL stesso al 30 giugno scorso. La cifra cambia regolarmente con una crescita costante nel corso del tempo. Dei 935 dell’anno scorso, secondo CGIA di Mestre, ben 351 sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale, vale a dire 4 su 10, precisamente il 37,5 per cento del totale. 

Un record, una selva contrattuale in cui si fatica a vedere se vengono rispettati i diritti più elementari. Se è chiaro che la libertà sindacale va garantita, è altrettanto chiaro che si tratta spesso di sigle sindacali inesistenti, create allo scopo, che vanno a firmare contratti nazionali con regole al ribasso in ogni ambito, riduzione dello stipendio, limitazione dei diritti più elementari, aumento della precarietà, differenziazione uomo-donna, contrazione delle norme per ls sicurezza sui luoghi di lavoro - e sappiamo quanto è grave il problema visto che non passa giorno che non ci informino dell’infortunio o del decesso di qualcuno sul luogo di lavoro. 

Non basta certo lamentarsi, occorre un intervento politico. Quindi, una domanda: perché il PD non si intesta un’iniziativa politica per normare la rappresentanza sindacale nel senso che i sindacati più rappresentativi possano siglare contratti validi per tutti? Che porti, in qualche modo, alla possibilità di verificare cosa accade nella selva dei contratti di lavoro, e ridurre, ordinare, chiarire l’intero settore?

Olaf Scholz è il nuovo Cancelliere tedesco ed ha già espresso alcuni interventi chiari del suo prossimo governo, fra cui il salario minimo a 12 euro. E’ giunto il momento anche per noi per un’iniziativa politica riconoscibile, chiara, su cui investire, riguardante il mondo del lavoro?







martedì 16 novembre 2021

Cop26: fine della deforestazione, ma al 2030


Anche i risultati della Cop 26 (ventisei!) tenutasi a Glasgow giacciono fra i chiaroscuri che usualmente avvolgono i contenuti di questi vertici, difficilissimi da raggiungere in partenza per la necessità di accordare fra loro quasi tutti i Paesi del mondo, ovviamente diversissimi fra loro.

Due pilastri che possono essere buon sostegno alla lotta al cambiamento climatico e alla depauperazione della natura terrestre sono l’accordo sul metano e l’accordo sulla fine della deforestazione. Partiamo oggi da quest’ultimo, una buona notizia, attesa da tempo, estremamente positiva se ovviamente sarà realmente attuata.

Oltre cento Paesi ospitanti in totale l’86% delle foreste presenti sulla Terra 

si sono impegnati a fermare la deforestazione entro il 2030, mettendo sul tavolo impegni finanziari, inclusi investimenti privati, per un ammontare di 19,2 miliardi di euro. L'Unione europea si è impegnata per un miliardo, di cui 250 milioni da destinare al Bacino del Congo, secondo polmone della Terra dopo l'Amazzonia. Il presidente americano Joe Biden ha annunciato che chiederà al Congresso di stanziare 9 miliardi entro il 2030. Ma ciò che più conta è che tra i firmatari ci siano anche il Brasile (con la presidenza Bolsonaro, accusata da anni di consentire il disboscamento nella foresta dell’Amazzonia), la Russia, la Cina, la Colombia, l’Indonesia, l’Australia, il benemerito Costa Rica, ossia Paesi che ospitano gran parte delle foreste del mondo. 

Ora, che cosa succede da qui al 2030? Speriamo che non le radano al suolo, così che al 2030 non ci saranno difficoltà nel fermare la deforestazione...


Proteggere le foreste significa proteggere serbatoi di carbonio, produttori di ossigeno, scrigni di biodiversità, mitigatori del clima, significa conservare habitat naturali antichi o primari, tutelare popoli nativi e le loro culture. Un patrimonio che non ha prezzo, visto che è indispensabile alla vita sulla Terra.

Ma quante sono le foreste oggi? Per avere un’idea, la figura mostra le foreste primarie in verde scuro, le deforestazioni occorse negli anni 2000 in rosso, le foreste non primarie in verde chiaro. Queste ultime spesso corrispondono alle aree vergini che un tempo ricoprivano vaste aree del pianeta. E’ evidente che le zone con foreste vergini rimaste sono circoscritte, spesso frammentate, e che c’è un continente, l’Europa, che non ne possiede quasi più. Quasi, perché con una scala più dettagliata si vedrebbero i pochissimi e limitati territori europei ancora oggi con boschi intatti, soprattutto in alcuni Paesi dell’Est (Polonia) o del Nord (Scandinavia). Questo fatto ha un preciso significato politico: se vogliamo che Paesi ancora detentori di patrimoni naturali importanti, e spesso con poche risorse finanziarie, proteggano i beni naturali che possiedono dobbiamo contribuire concretamente per metterli in condizione di poterlo fare. L’Europa non era un immenso territorio agricolo, e meno che meno industriale, era ricoperta di foreste esattamente come lo sono oggi altri Paesi che hanno subito minori impatti. Il nostro Paese non fa eccezione, quasi tutto il territorio è stato modificato in profondità dall’uomo - forse soltanto nascoste valli residui del passato hanno resistito perché impervie. 

Se ci si accorda per tutelare ciò che resta della natura terrestre ciascuno perciò deve fare la sua parte. 

Per approfondire, segnalo il rapporto FAO “The state of the world’s forests - 2020” all’indirizzo in calce, oltre al sito WCS da cui è tratta l’immagine.




https://www.wcs.org/our-work/solutions/climate-change/intact-forests


https://www.fao.org/state-of-forests/2020/en/



mercoledì 3 novembre 2021

G20 di Roma: moderato ottimismo

 Se non ci è dato di predire il futuro, in questo caso in termini probabilistici possiamo prefigurare cosa sarà altamente probabile che accada sulla base dei dati e dei modelli climatici scientifici, e si tratta di scenari molto preoccupanti. Per evitare il peggio si deve agire ora, con tempi ridotti, in modo coerente e, come ha giustamente sottolineato il Presidente del Consiglio Mario Draghi, con un approccio multilaterale. 

Il G20 tenutosi a Roma alla fine di ottobre ha prodotto una dichiarazione di intenti e un confronto ai vertici che si possono considerare con moderato ottimismo. 

L’elenco degli impegni assunti è notevole nonostante manchino ancora posizioni nette su alcuni punti, ed il dialogo è a buon livello, a mio avviso, anche con i Paesi che non erano presenti, come Russia e Cina.

Il testo della Dichiarazione di Roma si trova all’indirizzo in calce, insieme ad una serie di informazioni sull’evento.

Riassumendo in breve i punti principali, e con particolare attenzione al tema ambientale, emerge innanzitutto l’impegno di tutti a rispettare l’Accordo di Parigi del 2015, indirizzando gli sforzi al mantenimento del limite di +1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali. Ricordo che già oggi siamo intorno a +1°C, il che significa che il margine è strettissimo. Questo è l’obiettivo-guida dei prossimi anni, e sarà cruciale attuarlo nel concreto.

A tale scopo, viene riconosciuta la rilevanza del raggiungimento della neutralità carbonica (emissioni globali nette nulle) per o intorno alla metà del secolo (“by or around mid-century”), la necessità di eliminare gradualmente e razionalizzare, a medio termine, i sussidi ai combustibili fossili inefficienti, la necessità di porre fine ai finanziamenti pubblici internazionali per la nuova produzione di energia dal carbone all'estero entro la fine del 2021, e il contributo del metano al riscaldamento globale. 

Evidentemente, viene lasciato ampio margine ai singoli Paesi per operare a seconda delle proprie caratteristiche, ma viene anche confermato l'impegno dei Paesi sviluppati di mettere in campo 100 miliardi di dollari all'anno dal 2020 al 2025 per sostenere la transizione energetica delle economie emergenti. La questione della data imprecisa “intorno alla metà del secolo” che molti hanno posto è reale, ma non insuperabile se gli altri impegni verranno soddisfatti. 

La questione della ripartizione dei ruoli fra Stati non è un dettaglio: è vero che i Paesi sviluppati, fra cui Europa e USA, hanno inquinato senza limiti fino ad ora, mentre Cina, India, per non parlare dell’Africa, subiscono le conseguenze del cambiamento climatico avendo contribuito pochissimo in passato, dunque spetta a chi ha tratto maggiori benefici dare un contributo, che vada assolutamente a buon fine, a chi non è stato della partita. Per dare un’idea, Cina e India sono tra i massimi inquinatori in termini assoluti, ma si trovano alla 15° e alla 24° posizione in classifica pro capite, che invece è guidata da Stati Uniti e Australia (trascurando gli Stati piccolissimi). La differenza oggi importante consiste nel fatto che mentre noi stiamo calando le emissioni (USA compresi), loro le stanno aumentando. L’andamento nel corso del tempo diventa centrale nell’analisi: possono i Paesi che non lo hanno fatto finora, realizzare adesso uno sviluppo analogo al nostro? Dal punto di vista scientifico la risposta è no. La Terra ed i suoi sistemi naturali non sopporterebbero un simile percorso. Qui sta il nodo politico principale: fare in modo che si passi alle tecnologie sostenibili direttamente, ora, tutti quanti. 

Il progetto di rigenerazione degli ecosistemi, e l’obiettivo di arrestare al deforestazione  al 2030 affermato alla Cop 26 in corso a Glasgow, costituiscono un contributo fondamentale al raggiungimento di tutti gli obiettivi previsti, incluso quello di prevenire future pandemie simili a quella Covid-19, riguardo il quale la Dichiarazione di Roma prevede di vaccinare il 70% della popolazione mondiale per la metà dell’anno prossimo. 


Dunque, si può dire che il bicchiere è mezzo pieno: una buona cosa se si pensa da dove veniamo (vent’anni fa a parlare di questi temi c’eravamo solo noi ambientalisti e il Principe Carlo), un problema con numerose lacune se si pensa a dove dobbiamo arrivare (azzerare le emissioni).

Sul piano politico l’incontro è stato positivo nel suo complesso e per l’Italia. Funziona il soft power di Roma? Giurerei di sì, guardando le facce mentre salivano lo scalone del Quirinale. Mario Draghi ha ottenuto un buon successo; c’è molto da fare, sarebbe bene andare avanti con il governo in carica e non interrompere ora qualcosa che sta funzionando per il bene del nostro Paese.


Il sito del G20:


https://www.g20.org/it/il-vertice-di-roma.html



mercoledì 20 ottobre 2021

Un buon momento

 Questo post contiene esclusivamente congratulazioni, dunque è benefico in sé, nonché auspicio per evoluzioni positive che caratterizzino il futuro.

Innanzitutto, a Giorgio Parisi, fisico dell’Università di Roma La Spienza e dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, attuale vicepresidente dell'Accademia dei Lincei, che è stato insignito del Premio Nobel per la Fisica 2021 insieme a Syukuro Manabe della Princeton University, negli Stati Uniti, e Klaus Hasselmann del Max Planck Institute for Meteorology di Amburgo, in Germania.

Gli studi di Parisi sui sistemi complessi lo hanno portato a vincere il premio, che per la prima volta viene assegnato a tale campo di ricerca. Si tratta di un’area di studio relativamente nuova, nettamente diversa e straordinariamente importante: fra le sue numerose applicazioni si annovera anche il sistema climatico, oggi al centro delle preoccupazioni per il cambiamento in atto causato dalla diversa composizione atmosferica.

Il tema della complessità è al centro delle riflessioni più attuali della cultura contemporanea sia in ambito scientifico, come dimostra il lavoro di Parisi, sia in ambito filosofico, penso ad esempio al contributo di Edgar Morin o di Ilya Prigogine. La perdita delle assunzioni di linearità nei sistemi porta a conseguenze a volte inaspettate e oggetto di studi ancora molto aperti. Un campo di lavoro decisamente affascinante. 


Il premio assegnato ad un professore italiano porta ad apprezzare maggiormente il lavoro che si fa nei nostri centri di ricerca e a non dimenticare che i finanziamenti alla ricerca scientifica, ed in generale alla cultura a partire dalla scuola, sono il miglior investimento che uno Stato possa fare per i propri cittadini. Si tratta dei pilastri su cui poggia l’intero edificio, più robusti sono meglio è. Istruzione, formazione, ricerca, e cultura in generale sono esattamente ciò con cui “si mangia” in un Paese moderno, le basi per costruire il futuro, fatte di persone in carne ed ossa capaci di creare nuove visioni e aprire nuove strade. 


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Si sono conclusi i ballottaggi delle elezioni politiche amministrative, anch’essi favorevoli al centrosinistra. Come dire, è un buon momento.

Roma, Torino, e altre città più piccole saranno governate dai candidati progressisti, come le altre in cui la vittoria era stata decisa al primo turno. A Bologna Matteo Lepore ha presentato la squadra di governo della città, ed a loro, come a tutti i Sindaci e le giunte delle altre città, va l’augurio di buon lavoro. 

Le città sono determinanti per gli sviluppi futuri delle nostre società e in quest’ottica assumono particolare rilevanza. La presenza dei temi ambientali in vari assessorati mostra tutta l’importanza de tema, trasversale alle tematiche più cogenti.






lunedì 11 ottobre 2021

I grafici sono chiari: occorre fare di più

 I grafici che seguono mostrano gli andamenti delle concentrazioni in atmosfera dei principali gas causa del riscaldamento globale negli anni e fino al 2020, cioè lo scorso anno. Forse è giusto preoccuparsi: nonostante le politiche di contenimento delle emissioni, nonostante i proclami, gli impegni, gli accordi internazionali, non si vedono cambiamenti significativi in curve che sono volte alla crescita.  Come è già stato rilevato, tutto ciò ci sta portando a superare i 3° di incremento della temperatura media, molto oltre gli impegni dell'Accordo di Parigi.

I grafici mostrano, nell’ordine, la CO2, il biossido di azoto, il metano e i principali CFC. Soltanto alcuni CFC mostrano un andamento nettamente decrescente, mentre il metano addirittura dopo un periodo di stabilizzazione ha ripreso a crescere con grande intensità. Emerge con chiarezza che è indispensabile fare di più per ridurre le emissioni climalteranti.

La fonte è la NOAA,  agenzia statunitense. 







mercoledì 6 ottobre 2021

Primo Turno: vittoria progressista, persi nella nebbia sovranisti e populisti

 Il futuro delle città sembra progressista - mutuo la bella, antica, parola rinnovata da Matteo Lepore - ma attendiamo le numerose città dove si terrà il ballottaggio fra due settimane. Il ballottaggio è sempre una partita nuova, non l’addizione o la sottrazione dei voti precedenti, per cui è necessario attendere il momento giusto prima di trarre conclusioni e proporre analisi. In ogni caso i risultati sono stati buoni per il centrosinistra, e persino ottimi in tre grandi centri urbani dove si è vinto al primo turno. Non si può estrapolare un risultato locale sulla linea nazionale, ma Milano, Napoli e Bologna insieme fanno pur sempre il 6% del corpo elettorale e il 5% dell’intera popolazione italiana, per non parlare del rilievo come città sul piano nazionale e internazionale, e saranno governate dal centrosinistra con una scelta decisa al primo turno: un risultato che da solo vale un’elezione. 


Vedremo dunque i ballottaggi, ma alcuni aspetti possono però essere già appuntati. Innanzitutto, la forza sul territorio del centrosinistra, che non è un elemento superficiale, al contrario, è un aspetto fortemente caratterizzante una formazione politica o una coalizione. In secondo luogo, la difficoltà che ormai da tempo avvolge le tesi sovraniste e populiste di ogni tipo come una nebbia che le oscura prima di giorno. Stanno uscendo dai radar, e chissà mai se rientreranno, prive come sono di qualsiasi fondamenta razionale, almeno nel nostro Paese. 


Oltre al centrosinistra, al Partito Democratico e al suo Segretario Enrico Letta nuovamente eletto in Parlamento,  e ai candidati che hanno vinto credo che domenica scorsa abbiano vinto anche la serietà, la stabilità, l’affidabilità. Credo cioè che in buona misura abbia influito il modo in cui è stata affrontata la pandemia che ci ha colpito negli ultimi due anni, premiando coloro che hanno mostrato di affrontare le numerose e nuove difficoltà che la situazione comporta con rigore invece che con posizioni sommarie e ondivaghe alla probabile ricerca di consenso fra minoranze esigue e del tutto marginali. Gli errori sono certamente possibili, e ci sono stati, ma la priorità sempre data al rigore, alla ricerca della sicurezza sanitaria, e alle fondamenta scientifiche delle posizioni espresse è stata apprezzata da molti. 


Analisi più approfondite vanno riservate alla tornata finale. Per ora, congratulazioni agli eletti, e buon lavoro a coloro che sono impegnati nei ballottaggi.




venerdì 1 ottobre 2021

Domenica elettorale

 Nelle giornate di domenica 3 e lunedì 4 ottobre 2021 si terranno le elezioni amministrative in numerose città italiane, con eventuale turno di ballottaggio il 17 e 18 ottobre, con l’eccezione di Trentino Alto Adige, Sicilia e Sardegna dove le elezioni si terranno la settimana successiva.  Per la precisone, sono coinvolti 1.342 comuni di cui 21 capoluogo di provincia, fra i quali alcune grandi città come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna. Nei comuni delle regioni a statuto ordinario e nella Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, domenica 3 ottobre i cittadini possono recarsi alle urne dalle 7 alle 23, lunedì 4 ottobre invece fino alle ore 15.


Come detto,  si voterà anche a Bologna, dove ho sostenuto la candidatura alla carica di Sindaco della città di Matteo Lepore, ed in altri 48 comuni dell’Emilia Romagna fra cui Ravenna e Rimini. L’amplissima partecipazione che si è avuta a Bologna aggregatasi intorno alla figura di Lepore e alla sua Fabbrica del Programma sembra aver creato le condizioni per un risultato positivo per il centrosinistra, progressista e democratico, per dirla con lo slogan della sua campagna elettorale. Il voto di domenica prossima sarà importante per il futuro della città, e di tutte le città coinvolte, in un momento cruciale dello sviluppo della società italiana (e si può dire della società occidentale). Chi siamo e cosa vogliamo essere in un domani che spetta a noi oggi delineare termina con un punto di domanda a cui la risposta non può essere banale, sulla strada del qualunquismo o dell’assenteismo tout court. L’ovvietà è esclusa nei giorni della Youth for Climate, delle migliaia di giovanissimi impegnati a chiedere risposte concrete alle crisi del nostro tempo, nei giorni delle morti sul lavoro, nei giorni dei migranti, nei giorni dei mille conflitti armati che feriscono l’umanità. La primazia della politica nella costruzione e gestione degli insediamenti collettivi è un fatto reale e molto concreto che poggia sulla partecipazione e condivisone, nessuno può tirarsi indietro, e l’idea che ciascuno porta con sé sul da farsi determina differenze sostanziali. Le città sono, e saranno, fondamentali nella fase di transizione ecologica indispensabile ad evitare crisi climatiche catastrofiche, così come lo sono in moltissimi altri aspetti direttamente legati alla qualità della vita, la sicurezza, i servizi, la cultura. Senza dimenticare la bellezza e la storia che caratterizzano le città italiane: le iniziative di chiusura delle campagne elettorali locali inevitabilmente sono state fatte in alcune delle più belle piazze del mondo, le nostre. Dobbiamo essere in grado di mantenerle tali perché saranno esse le nostre parole rivolte alle future generazioni.  

Dunque, buona domenica e buon voto.


Per informazioni specifiche la regione Emilia Romagna ha creato un sito molto utile, al seguente indirizzo:



https://www.regione.emilia-romagna.it/elezioni





martedì 21 settembre 2021

Le cause del rincaro delle bollette richiedono interventi ad ampio raggio

 Il gravoso rincaro delle bollette di luce e gas di cui si parla da qualche giorno ha le sue cause, e dovrebbe spingerci a rimettere mano al tema energetico nel nostro Paese, visto che un evento che tocca direttamente tutti noi può ricevere più attenzione che non gli indispensabili appunti sulla conversione alla sostenibilità dell’intero sistema.

La quota sarebbe notevole - si parla di un 30% o 40 % - e il Governo sta lavorando per contenere i rincari che ricadono direttamente sulle famiglie.

La questione della struttura della bolletta è uno degli aspetti da considerare, rivedendo le varie voci e riequilibrando i pesi, ed è auspicabile che si intervenga in modo razionale e non una tantum al bisogno. 

Naturalmente, l’altro punto da esaminare, il più corposo e pregnante, consiste nel sistema energetico stesso che porta calore, carburanti ed elettricità a coprire i bisogni dei cittadini, dell’industria, dell’agricoltura. Il cambiamento in corso da anni ai fini della sicurezza e della sostenibilità ambientale va tenuto costantemente d’occhio ma soprattutto va calibrato in modo tale che la transizione ecologica sia accettabile sotto ogni profilo a partire da quello sociale, e perché no, persino desiderabile se riesce a delineare una migliore qualità della vita e uno sviluppo privo delle drammatiche conseguenze ambientali e sanitarie che già stiamo sperimentando.

La transizione ecologica ha un costo - come molti stanno affermando - che sarà più alto se continuiamo a promuovere la “vecchia” economia. Nel recente periodo, il sistema energetico italiano ha visto il gas sorpassare il petrolio, e le fonti rinnovabili conquistare percentuali importanti. Dal punto di vista delle fonti primarie, questo però non basta a modificare sensibilmente la sostanza: sottraendo infatti una quota di circa il 20% sul totale proveniente da fonti rinnovabili (con cui abbiamo superato l’obiettivo comunitario del 17%), il restante 80% è energia di importazione, vale a dire gas e petrolio prevalentemente acquistati all’estero, oltre ad una piccola quota di energia elettrica dai Paesi vicini. Questo ci espone ad almeno due fattori incisivi: primo, il prezzo della fonte primaria, oggi in crescita con la ripresa mondiale dopo la pandemia, e secondo, il prezzo della CO2 emessa, ora consistente dopo la riforma del sistema europeo di scambio delle emissioni Ets. E’ chiaro che continuare ad operare come prima, almeno in parte, ci espone sia ai problemi che abbiamo sempre avuto sia a quelli nuovi generati dalle politiche che intendono abbattere le emissioni climalteranti. 

Il prezzo delle quote di CO2, per inciso, è passato nel giro di un anno da 20 ad oltre 50 Euro per tonnellata, un fatto voluto per far finalmente funzionare un meccanismo pensato per ridurre in misura consistente le emissioni, dopo anni in cui il valore estremamente basso vanificava il tutto. Questa è la strada intrapresa, e non si tornerà più indietro.

Dunque, per spendere meno e meglio dobbiamo impegnarci per cambiare il sistema, senza perdere mai il filo. In particolare, la quota delle rinnovabili deve aumentare, insieme all’efficienza a monte e a valle di produzione e consumi. Al contrario di quanto alcuni scrivono a proposito di un presunto salasso dovuto alle politiche ambientali, le fonti pulite sono le uniche che possono modificare radicalmente un sistema eccessivamente dipendente dall’estero, tenuto conto anche che gli oneri derivanti dagli impatti ambientali delle fonti fossili sono sempre più elevati e ricadono sulla collettività, se non in bolletta, attraverso la fiscalità generale. IL vero salasso ce lo proporrà il cambiamento del clima terrestre se non resteremo entro il livello di guardia di +1,5°C di innalzamento della temperatura media.


Le considerazioni geopolitiche, inoltre, non sono certo una nota a margine. Oltre il 40% del gas che consumiamo proviene da un unico Paese, la Russia. Questo ci espone a variazioni del prezzo legate eventualmente alla quantità che viene resa disponibile, cioè all’offerta. Non è un tema da poco per un Paese come il nostro (e per quasi tutta Europa), e non sarebbe certo un nucleare ormai chiuso da decenni a risolverlo. Se non si presenteranno novità clamorose come la fusione nucleare, per ora occorre ragionare bene su ciò che si può fare adesso - non fra quindici anni - e trovare le strade per realizzarlo. Diversificare i Paesi da cui acquistiamo il gas può essere utile, ma sul lungo periodo acquisire una maggiore indipendenza sarebbe un beneficio notevole.

Consumi efficienti quindi bassi, e rinnovabili in ogni settore, termico ed elettrico, con una rivoluzione nei trasporti che ci consenta finalmente di liberarci dalla dipendenza dalla benzina o dagli altri derivati del petrolio. Non si tratta di un compito facile. La transizione ecologica non è cosa facile. 


mercoledì 1 settembre 2021

Dove sono gli inquinatori?

 Si dice spesso che la questione ambientale è “trasversale” alle fasce della popolazione e alle sensibilità di ciascuno, ma i dati ci dicono che non è così, o almeno non lo è nella parte preminente della stessa, l’inquinamento ormai globale. Un articolo sul sito Qualenergia, dal titolo “Chi ha riempito l’aria di CO2? E’ un problema di classe” (indirizzo in calce), spiega in breve perché, riprendendo un'analisi di Oxfam redatta dallo Stockholm Environment Institute. 

L’articolo infatti illustra la differenza fra i macro dati che portano a ritenere i giganti asiatici Cina e India maggiori responsabili delle emissioni di gas ad effetto-serra e i dati specifici che portano a conclusioni molto diverse. Lo studio in oggetto non si limita ad analizzare le emissioni per Paesi del mondo, ma ricostruisce la provenienza delle emissioni mondiali dalle varie fasce di popolazione suddivise per reddito. L’analisi riguarda gli inquinanti emessi dal 1990 al 2015, un periodo storicamente molto recente quindi svincolato dal passato in cui sappiamo di essere stati noi occidentali (USA e Europa) i maggiori responsabili delle emissioni.

Il risultato è sconcertante: l’1% di umanità più ricca emette più CO2 della metà dell’umanità costituita dai più poveri. 

Nello specifico, i 63 milioni di persone (circa l’1% della popolazione) che guadagnano più di 100 mila dollari all’anno generano da soli il 15 % dei gas climaletranti annuali, mentre i 3,6 miliardi di persone (la metà della popolazione mondiale) che guadagnano meno di 2.000 dollari all’anno emettono il 7% dei composti surriscaldanti l’atmosfera. 

Abbassando il livello di ricchezza, il 10% della popolazione mondiale che guadagna annualmente più di 35.000 dollari emette la metà dei gas ad effetto-serra.


L’ambiente è anche un problema sociale. Se soltanto 63 milioni di persone sono capaci di inquinare di più, il doppio, della metà dell’intera popolazione mondiale significa che consumo delle risorse, usi delle stesse, ed emissione nell’ambiente degli scarti sono processi estremamente concentrati nella vita di pochi con conseguenze negative gravanti su tutti, e costituiscono perciò una forte ingiustizia sociale.  (Chiaro che la risposta non può essere quella di portare il resto della popolazione agli stessi livelli con l’economia tradizionale altrimenti bolliremmo tutti quanti nel giro di un mese. Questo è precisamente il tema non di questo ma di quasi tutti gli altri post di questo blog.)

Veniamo alla geografia. Dove si trovano i ricchissimi inquinatori? Non sono equamente distribuiti nei vari Paesi del mondo, al contrario si concentrano in alcuni luoghi. 

Infatti, la metà vivono in USA e UE, che però ospitano solo il 10% della popolazione mondiale. I restanti si suddividono nel resto del mondo, America, Medioriente, Cina e India. Il paradosso, ben noto, riguarda il fatto che le peggiori conseguenze del cambiamento climatico andranno (e già ora vanno) a ricadere su Paesi che hanno contribuito poco o nulla alle emissioni climalteranti, come l’Africa o il Sud-Est asiatico. 


Dunque i dati scorporati forniscono una lente d’ingrandimento che mostra una realtà ben diversa dalle apparenze. Una realtà dove la questione ambientale emerge con le sue vere caratteristiche: una fitta trama intrecciata in cui pochi grossi fili partono a formare il tessuto che produce moltissimi fili di scarto all’altro estremo. Il telaio è il Mondo.  Il rischio di sfracello è reale, sotto il peso di un tessuto divenuto così spesso da essere ormai insostenibile.


L’articolo di Qualenergia si trova al seguente indirizzo:


https://www.qualenergia.it/articoli/chi-ha-riempito-aria-co2-problema-classe/








venerdì 20 agosto 2021

Afganistan in frantumi

 Ciò che sta succedendo in Afganistan è qualcosa di grave, che colpisce con forza l’animo di chi segue la vicenda, in buona parte inaspettato ma non imprevedibile, frutto, forse, di mire troppo alte: ricostruire una nazione non è uno scherzo.

Il fallimento ha riguardato infatti lo scopo più pregnante, dopo la sconfitta delle basi del terrorismo mondiale, mostrando ancora una volta che la democrazia “non si esporta con le armi”, come molti hanno sottolineato, e che vent’anni non bastano a porre le basi di una nazione nuova. Dunque, ha fallito la strategia di lungo termine messa in campo dagli Stati Uniti con gli alleati occidentali, e la ritirata precipitosa di questi giorni - male organizzata o forse mai organizzata - ha lasciato un Paese diviso, frantumato, povero, a cui i Talebani vogliono imporre la propria legge. In assenza di strutture statali e di una normativa adeguata si impongono coloro che fanno riferimento a leggi di natura religiosa, che esistono da secoli e probabilmente a molti sembrano credibili. Altrimenti non si spiegherebbe come mai i Talebani non siano scomparsi in questi venti anni, e si siano invece rinnovati con nuove leve di giovani che vent’anni fa erano bambini. Il processo culturale che porta ad uno Stato laico è lungo, e lo sappiamo bene anche noi in Italia dove lo Stato della Chiesa ha governato mezzo Paese per secoli - non faccio alcun parallelo nei contenuti, naturalmente, ma considero solo il piano della laicità, o meno. 

Una parte dell’Afganistan (che in italiano si scrive senza “h”) evidentemente ha creduto in noi, e soprattutto negli USA che guidavano la missione, ha collaborato, si è sentita libera di decidere il proprio futuro, e questi sono semi piantati che non spariranno semplicemente. Queste persone hanno dimostrato di essere disposte a rischiare la vita, e a morire, all’aeroporto di Kabul per fuggire. Abbiamo visto scene drammatiche. Queste persone vanno aiutate in ogni modo possibile, per loro e per non perdere davvero tutto ciò che si è fatto in questi anni.

Sul piano internazionale, molti sostengono che ora il Paese sarà terra di conquista commerciale per Cina e Russia. Dopo il “fallimento dell’Occidente”, o il “tramonto dell’Occidente”, e altri titoli simili, si faranno avanti le potenze asiatiche. Può essere, naturalmente, ma vedrei in questa vicenda più un fallimento degli USA, e della Nato, che non un fallimento dell’Occidente tutto, il che significa che se l’Unione Europea avesse una politica estera adeguata lo spazio si aprirebbe anche per lei, senza buttare nel cestino tutto ciò che si è fatto. La UE ha la potenzialità di rappresentare sulla scena mondiale qualcosa di diverso rispetto a quanto comunemente viene inteso con l’espressione “gli occidentali” e questo frangente sarebbe un bel banco di prova. 

Dopo aver definito quanto sta accadendo in Afganistan “una catastrofe” Josep Borrell si domanda “dov’è la nostra intelligence?” e se se lo chiede lui, figuriamoci se lo sappiamo noi, in un gioco continuo a simulare che l’Unione abbia un ruolo in politica estera. Lo deve costruire. Invece, si procede nel solito modo, USA e Nato, e noi al rimorchio, divisi e in ordine sparso. Se finalmente si muovesse qualcosa in Europa lo scenario mondiale potrebbe vedere cambiamenti interessanti capaci di cambiare radicalmente quanto siamo stati abituati fino ad oggi.






domenica 25 luglio 2021

Fra il G20 di Napoli e le politiche attive c’è uno spazio fortunatamente occupato dall’Europa

 Due punti di disaccordo, ma due punti non di poco conto: rimanere sotto 1,5 gradi di riscaldamento globale ed eliminare il carbone dalla produzione di energia al 2025. Due articoli chiave che, purtroppo, sono stati stralciati dal documento finale altrimenti non tutti i Paesi avrebbero firmato. Ora i punti di accordo sono 58 invece di 60, di carattere impegnativo ma abbastanza generico. E’ una costante di questi vertici che si cerchi di affossare ogni impegno preciso, ed in questo senso il G 20 a presidenza italiana non ha modificato le cose. Ora, se non tutto almeno una parte essenziale è rinviata alla Cop 26 di Glasgow, senza che l’incontro di Napoli abbia avuto la possibilità di incidere più di tanto. 

Il Ministro Cingolani parla in termini ottimistici dello stato delle cose, speriamo tutti con lui della volontà di impegnarsi di tutti i Paesi del mondo, anche se i dubbi restano soprattutto in funzione temporale: le leggi di Natura, ineludibili come ha detto lui stesso in un’intervista, non aspettano certo noi per fare il loro corso. 


Per farsi un’idea se non si segue regolarmente questi temi, siamo già oggi intorno al grado Celsius al di sopra della media, e questo semplice dato si trova all’origine di un cambiamento del sistema climatico che comporta fenomeni estremi più intensi e più frequenti, senza sconti per nessuno. Ora i nubifragi, gli uragani, gli incendi, i 50° di temperatura non sono più tema da geografia tropicale ma argomento che preoccupa cittadini e governi d’Europa, oltre che d’America, di Russia, di Canada, e di molti altri Paesi. La desertificazione avanza, si distruggono l’Amazzonia e le altre foreste primarie (tanto per dare una mano), o si deviano i fiumi dal loro letto per fare miniere, come è successo in Germania. Sì perché l’alluvione che ha devastato una zona prospera della Germania e del Belgio, causando 170 vittime nella prima e 27 nel secondo, ha certamente due padri: il cambiamento climatico che oramai è una vera crisi globale e la deviazione del letto del piccolo fiume Inde effettuata nel 2005 per fare una miniera a cielo aperto. Nella Germania capofila delle energie rinnovabili in Europa (quindi nel mondo) e spesso citata da noi ambientalisti ad esempio, si praticano ancora scavi di miniera alterando profondamente il territorio, si usa ancora una notevole quantità di carbone per la produzione energetica, e non si contano i grandi impianti industriali inquinanti, in numero e dimensioni ben superiori a quelli presenti nel nostro Paese. Nel caso in esame, evidentemente al fiume Inde - nell’antichità si ritenevano i fiumi veri e propri dèi, e forse non avevano tutti i torti - non piaceva il nuovo assetto del territorio e si è ripreso quanto era suo, punendo gli umani per la loro irrispettosa azione. 

Sta di fatto che siamo già nei guai con un solo grado di incremento della temperatura, figuriamoci con un grado e mezzo - ipotesi migliore - o con due - ipotesi che viene dopo la migliore - ovvero con il rispetto da parte di tutti dell’Accordo di Parigi. Che comunque è quanto di meglio siamo riusciti finora a mettere nero su bianco.


L’Europa comunque resta il traino mondiale su questo problema, e per questo va encomiata. Il 14 luglio scorso la Commissione europea ha adottato un insieme di misure legislative sul clima che va sotto il nome di “Fit for 55”, cioè siamo pronti per ridurre del 55% le emissioni di gas climalteranti al 2030 rispetto ai livelli del 1990, con l’obiettivo di arrivare alla neutralità climatica al 2050. L’Unione così passa dalle parole ai fatti delineando il percorso per realizzare nel concreto il Green Deal. Il pacchetto contiene undici proposte riguardanti regolamenti, direttive esistenti e nuove per trasformare radicalmente il nostro sistema economico e produttivo e renderlo sostenibile. Per diventare operativo dovrà essere approvato da Parlamento e Consiglio - e arriverà il 2022 se va bene, quando si dice il tempo...


Stiamo cercando davvero di cambiare il mondo in meglio, e di rimediare ai danni già fatti. Se qualcuno si oppone, ne porterà la responsabilità. Ma siamo ottimisti e guardiamo avanti.


Per approfondire i temi di questo post, i seguenti link sono un primo passo:


https://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/clima/2021/07/23/cingolani-su-2-punti-non-abbiamo-trovato-accordo_03721ad1-4efd-4f6f-aedd-8588df82d20e.html


https://cdn.rinnovabili.it/wp-content/uploads/2021/07/Sintesi-del-documento-finale-G20-ENERGIA-E-CLIMA.docx


https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/07/16/alluvione-in-germania-limpressionante-ripresa-aerea-sul-fiume-inde-deviato-nel-2005-per-la-miniera-oggi-si-e-ripreso-il-suo-corso/6263747/


https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_21_3541





martedì 13 luglio 2021

Momenti cruciali

 E’ il nostro momento, come dicono molti? Chissà, a volte basta davvero convincersene per cambiare la direzione di marcia. 

Sta di fatto che la Nazionale di calcio ha vinto, meritatamente, la competizione Europea, che un tennista italiano, Berrettini, è arrivato in finale a Wimbledon, che un gruppo italiano, i Måneskin, ha vinto l’Eurovision Song, che è stato dato il via al Piano di ripresa e resilienza nazionale, e apparentemente siamo felici. Va anche detto che lo sono di meno i 422 dipendenti della GKN di Campi Bisenzio, a due passi da Firenze, licenziati con un messaggio Whatsapp, o le vittime di infortuni e decessi sul lavoro, sempre in numero elevatissimo, o i 5 milioni e seicentomila italiani che vivono in “povertà assoluta”, secondo quanto certifica ISTAT, numero in forte crescita lo scorso anno. La frase classica in questo caso è “non mancano le contraddizioni”, per cui appunto cerchiamo di contenerle perché contraddirsi non è mai una buona cosa. Un auspicato miglioramento delle nostre condizioni economiche deve portare con sè un contestuale miglioramento delle condizioni del lavoro e una consistente riduzione delle diseguaglianze. 

Il momento sembra a noi favorevole e una ventata di ottimismo non può che fare bene. Quando ci lamentiamo della scarsa considerazione di cui godiamo all’estero, non dimentichiamo che sta a noi ottenere l’esatto opposto e che, al contrario di quanto spesso sospettiamo, basta poco per rianimare l’immagine, a volte spenta, dell’Italia nel mondo: basta ritrovare gli aspetti migliori che caratterizzano il nostro Paese e noi stessi, e che sono molto apprezzati.

Mario Draghi sta guidando una fase interessante e difficile, un momento di passaggio dopo un dramma collettivo portato da un virus, il suo governo riassume le principali tendenze politiche del nostro Paese: da loro ci aspettiamo moltissimo. Sono responsabili dell’immediato e del futuro per una quota mai così elevata: crescita economica e riduzione dell’impatto ambientale, azzeramento delle conseguenze sul clima, riequilibrio delle dinamiche economiche e sociali interne, ruolo in Europa e nel Mondo.  Insomma, stanno delineando il nostro Paese nel futuro prossimo e anche più lontano nel tempo. 

In questo momento, il Paese è sostenuto dalla progressiva diffusione di una fiducia che, se non cieca, certo da tempo mancava in questa intensità. Pur con tutte le difficoltà ben note, siamo in Unione Europea (e continueremo a restarci), siamo un Paese con grandi potenzialità, e abbiamo ora la possibilità, grazie ad un finanziamento mai così ingente, di costruire il futuro che desideriamo. Non sprechiamo un’occasione irripetibile.

Non per niente il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha per titolo “Italia domani”. Per conoscerlo meglio, si può scaricare al seguente link:


https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf





venerdì 25 giugno 2021

Fusione accelerata

 Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature ripropone, in versione particolarmente precisa e approfondita, il tema dello scioglimento dei ghiacciai che sta interessando praticamente tutto il pianeta.  L’articolo, dal titolo “Accelerated global glacial mass loss in tre early twenty-first century”, (“Perdita di massa glaciale globale accelerata nei primi anni del ventunesimo secolo”) esamina il tema della velocità della fusione dei ghiacciai, per nulla costante. Anzi, come si evince già dal titolo, accelerata. Un aspetto importante che ci riporta ad un parametro già più volte menzionato in questo blog: il tempo. Dopo anni (decenni) in cui la politica e’ stata inerte, se non addirittura refrattaria, quindi assolutamente inadeguata ad affrontare la questione, ora sembra che si voglia procedere verso una vera decarbonizzazione dell’economia e, ammesso che lo si faccia davvero, “fare in tempo” prima che succedano eventi irreparabili sarà la sfida prioritaria.

Meglio chiarire subito per farsi un’idea precisa che l’accelerazione e’ una variazione della velocità positiva, vale a dire che determina una velocità che cresce nel tempo. Se un ghiacciaio e’ arretrato di cinquanta metri (la riduzione lineare e’ più facile da immaginare che non la perdita di massa complessiva), poniamo, in vent’anni, nei prossimi venti non indietreggerà di ulteriori cinquanta metri, ma di più. Per esempio di settanta. Successivamente, nei futuri vent’anni, non arretrerà di settanta, ma di più. Per esempio di cento. E così via. Alla fine, non ne resterà nemmeno uno. 

Se la mente umana fatica a comprendere il concetto di crescita esponenziale, come ci hanno più volte spiegato esponendo i dati dei contagi durante la pandemia, credo che abbia qualche problema anche con la crescita accelerata. Assai più semplice da comprendere, ma ancora difficile da credere. 

La progressione trovata nella ricerca esposta nell’articolo (indirizzo in calce) non è quella scritta sopra a titolo esemplificativo, ma un vero dato numerico intero riferito ai primi anni del 21° secolo, cioè quelli che abbiamo appena vissuto o che stiamo vivendo ora.  Durante il periodo che va dal 2000 al 2019 i ghiacciai hanno perso una massa di 267+-16 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) all’anno. E veniamo all’accelerazione: lo scioglimento della massa glaciale accelera di 48+-16 gigatonnellate all’anno ogni decade. Fra dieci anni, quindi, la velocità di scioglimento dei ghiacciai sarà di 315 gigatonnellate all’anno, e se l’accelerazione stessa resterà costante, fra venti il dato sarà di 362 gigatonnellate all’anno. L’incertezza di più o meno 16 non altera il nocciolo del ragionamento.

Si tratta di un’accelerazione molto alta, che porta a velocità di scioglimento dei ghiacciai elevatissime. E non sappiamo nemmeno se essa sia costante. 

Naturalmente, ci sono differenze a livello locale, fra i ghiacciai artici e antartici e i ghiacciai montani, e fra questi ultimi nelle varie regioni della Terra. Ma il dato è ormai più che allarmante, esso e’ parte del quadro reale che sta prendendo forma anticipato dai vari studi che tentano di capire come diventerà il clima terrestre a seguito del cambiamento esteso e profondo indotto dalle attività umane, con cui dovremo fare i conti. Sappiamo che non basterà nemmeno più ridurre gli inquinanti a quasi-zero nei prossimi anni per arginare le conseguenze di quanto e’ già stato emesso in atmosfera - percorso che comunque va fatto - e perciò dovremo adattarci. Il cambiamento climatico è una realtà in atto, da tempo, e senza attendere le nostre decisioni.


Lo studio citato si trova al seguente link:


https://www.nature.com/articles/s41586-021-03436-z



domenica 13 giugno 2021

Primarie del centrosinistra per la carica di Sindaco di Bologna

 Domenica 20 giugno si svolgeranno le elezioni primarie del centrosinistra a Bologna per decidere il candidato alla carica di Sindaco della città. 

Si potrà votare dalle ore 8.00 alle ore 20.00, recandosi ai seggi che verranno allestiti oppure online con l’accreditamento Spid dell’identità digitale.


I candidati sono due: Matteo Lepore e Isabella Conti. Il primo, Assessore in città, la seconda, Sindaca di San Lazzaro, paese alle porte di Bologna sulla Via Emilia. Il primo, esponente del Partito Democratico, la seconda, di Italia Viva, dopo essere uscita tempo fa dal medesimo PD. 

Ho già descritto in questo blog le criticità che emergono dalla parabola che porta a queste primarie, troppo evidenti per essere accantonate in modo spiccio. Ora si tratta di andare a votare, ma in seguito sarà tempo di occuparsi dei percorsi che portano alle candidature stesse, in un’analisi che non può più essere evitata.

Ed il voto è obiettivamente una scelta non facile fra due amministratori capaci che riescono ad incarnare entrambi sensibilità che sono ben presenti nel PD, oltre che nel centrosinistra nel suo complesso. Un primo elemento da considerare, che non può che essere positivo, è proprio questo, ovvero il fatto che si tratta di due candidature di qualità, e chi fra i due vincerà dovrà tenerne conto. Dunque, bene, ai progressisti non mancano le persone da mettere in campo, al contrario delle destre che non riescono a trovare un candidato. Se ci dicono che siamo litigiosi è un complimento al confronto del vuoto assoluto che si trova dal lato destro. 

Se votassi a Bologna (non voto più in città per ragioni di residenza), ho maturato la convinzione che voterei per Matteo Lepore. Le sue qualità di amministratore non sono in discussione, come detto, ed è fondamentale che il candidato alla carica di Sindaco sia espressione del Partito Democratico. Il PD ha il suo luogo naturale al cuore della coalizione, di cui è perno e motore. Credo che si aprano prospettive nuove in città con Lepore alla carica di Sindaco che non possono realizzarsi in altre condizioni politiche. 


La città di Bologna, già ben amministrata, ha comunque la necessità di migliorare guardando al futuro. Ed deve essere lei, la città con i suoi abitanti, il centro dell’attenzione e dell’impegno comuni.


Come si legge sul sito delle primarie, possono votare le cittadine e i cittadini italiani e dell’Unione Europea residenti nel Comune di Bologna che alla data delle Primarie di centrosinistra abbiano compiuto 16 anni di età, nonché le cittadine e i cittadini di altri Paesi in possesso di permesso di soggiorno, residenti nel Comune di Bologna. 


Per ogni ulteriore informazione, consultare i siti:


www.primariebologna.com


www.pdbologna.com





domenica 6 giugno 2021

La sfida, decisiva, di Draghi e dell’UE

 L’ultimo numero di Limes (“Il triangolo sì”, 4/2021) è dedicato a quella che viene definito il nucleo della koinè europea, ovvero il Triangolo costituito da Italia, Francia, Germania. Non c’è dubbio che siamo una comune civiltà che si trova geograficamente sul continente europeo, che invece di sentirsi “vecchia” (la “vecchia Europa”) dovrebbe saper guardare al futuro, in un quadro evolutivo.

Parto dalla fine, non della rivista ma del ragionamento, ovvero dalla necessità di dotarci di “un’amministrazione pubblica degna del nome”. Questo dovrebbe essere obiettivo prioritario, o incluso fra i prioritari, di coloro che governano per molte ragioni. Soprattutto una: il tempo. L’assunzione del problema infatti non è nuova, ma il tempo che passa rende sempre più urgente la sua soluzione. Il numero citato della rivista porta avanti una tesi, ovvero che il confronto con la Francia ci spinga a farlo - meglio prima che poi. Lo scopo è naturalmente molto elevato, ovvero che l’Italia faccia la sua parte (finalmente) nel contesto internazionale ed europeo, in altre parole, che sia in grado di farla. Un fine assolutamente condivisibile e auspicabile.

Il contesto attuale di rafforzamento delle relazioni con la Francia dovrebbe aprirci gli occhi, e le capacità politiche visto che si tratta di giocare un ruolo di equilibrio, e decisivo, in Europa e nei rapporti con gli USA. La sensazione, quasi istintiva, è che ci sia spazio per noi e che l’aspettativa sia che lo riempiamo adeguatamente. Includendo il rapporto con gli USA, per noi strettissimo, si capisce in quale contesto ci troviamo e dobbiamo agire. 


Le affinità/diversità culturali ovviamente hanno la loro importanza, ma andando al sodo i conti mostrano che i legami sono intensi per noi con la Francia e con la Germania. E salta fuori persino la mia regione: l’Emilia-Romagna ha una posizione decisamente rilevante nel ragionamento se, insieme al resto del Nord Italia, presenta un interscambio commerciale con la Germania di prima categoria (si trova in terza posizione dopo Lombardia e Veneto). Non per niente il treno tedesco arriva fino a Bologna, e parte da Bologna verso Austria e Germania, la rete viaria di collegamento da Modena attraverso il Brennero (Statale 12, Autostrada, ferrovia) è la principale, e non ultimo, le spiagge romagnole sono mete consolidate del turismo germanico. Anche la Francia ovviamente ha grandi rapporti con le regioni del Nord Italia, ma la sua presenza si estende in modo più uniforme su tutto il territorio della penisola. 

Sono rapporti spesso asimmetrici sul piano della forza, ma visti da una luce positiva, sono parte del processo unificante l’Europa, che viaggia su binari suoi propri spesso indipendentemente dai tracciati della politica. 


L’analisi però non è completa se non si esamina la questione energetica. Basta dare un’occhiata a qualsiasi cartina dei condotti di gas per vedere ad occhio quale tipo di legame fisico - altro che culturale o sentimentale - ci riguardi. Il nostro Paese importa poco meno della metà del gas dalla Russia, poi dal Nord Africa, dalla Norvegia, dall’Olanda. Più o meno lo stesso per l’Unione Europea tutta, che dipende per poco meno della metà del fabbisogno di gas dalla Russia, da cui lo importa tramite gasdotti che percorrono migliaia di chilometri attraverso vari Paesi dell’Est. Quindi si dipana una matassa, sul territorio geografico e su quello politico, che verso Est ha uno dei suoi fili principali.

Ovviamente importiamo anche petrolio, ancora necessario soprattutto per i trasporti. 

Per questo la politica energetica dell’Unione sarà fondamentale. Perché non ci sarà nessuna considerazione storica, culturale, di affinità, che potrà incidere di più di una pura e semplice dipendenza energetica. Per questo la politica energetica dell’Italia sarà fondamentale. Per le stesse ragioni. 


Da qui discende la questione climatica - nei ragionamenti politici - non il clima che richiede stabilità, ma il clima che offre la porta aperta per ridurre la dipendenza energetica, che è e resta un fattore chiave. Qui si fa l’Europa, con la e maiuscola. Un continente ad emissioni zero (quasi) significa che ha ridotto in misura rilevante i suoi consumi di gas e di petrolio, e questo fattore va a cambiare le cartine con i gasdotti, i porti del petrolio o di GNL. Energia sua propria significa principalmente, per l’Europa, solare, eolica, idro, veicolata per via elettrica, e bassi consumi ottenuti con l’efficienza.

In attesa di grandi novità dalla fusione o dall’idrogeno, ad oggi significa questo.

Si tratta di una strada da percorrere senza esitazione, perché in gioco c’è il nostro futuro. Macron, Merkel, Von der Leyen lo hanno capito, noi dobbiamo fare altrettanto. 

Qui entra in gioco l’apparato statale cui abbiamo fatto cenno all’inizio. Siamo in grado di gestire i lauti fondi che avremo a disposizione? Next Generation EU è alla nostra portata? Questo è il punto cruciale che deve affrontare Draghi con il suo governo. Con tutta la volontà possibile.


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