venerdì 21 agosto 2020

Per salvarci dalla crisi climatica non serve fermare tutto e tornare alla candela, ma impegnarci seriamente con politiche green

Quante volte abbiamo sentito la frase “ma allora, secondo le tesi ambientaliste dovremmo fermare tutto e tornare indietro ai tempi passati”, quante volte il suo contenuto è stato lo spauracchio di coloro che governavano e della politica in genere. La tesi del ritorno indietro in realtà esiste, ma non può essere considerata logica ed unica conseguenza della necessità di proteggere l’ambiente. Anzi, secondo chi scrive si tratta di un’opzione che porterebbe ad esiti contrari a quelli che si vorrebbe ottenere con la sua applicazione: sette miliardi di persone che vivessero ricorrendo alle risorse naturali in modo diretto avrebbero un impatto ambientale distruttivo in un tempo brevissimo. La questione ambientale è complessa - nel senso della teoria della complessità - ed evolutiva: l’ambiente che caratterizza oggi il pianeta Terra non è lo stesso del passato, l’equilibrio preistorico è irraggiungibile e coloro che lo sognano fanno un puro esercizio di fantasia, e l’unica via che abbiamo la possibilità di seguire è quella tecnologica. Sarà un insieme costituito da una corretta applicazione delle tecnologie nuove, di politiche adeguate, di riduzione delle diseguaglianze sociali con conseguente possibilità di accesso per tutti alle tecnologie medesime, la chiave per aprire la porta del futuro. Il futuro non sarà, e non dovrà mai essere, simile al passato (il caso contrario, sarebbe una catastrofe planetaria). 

Una ricerca pubblicata su Nature Climate Change esamina l’effetto sulle tendenze globali dei parametri che caratterizzano il cambiamento climatico della chiusura dovuta all’epidemia denominata Covid-19. Nella tragedia costituita da una nuova malattia virale che per molti risulta essere mortale, abbiamo un’occasione d’oro di studio di un fatto senza precedenti: per mesi tutto il mondo ha fermato quasi completamente le attività, viaggi, spostamenti ridotti al minimo per le merci, fabbriche, aziende, impianti industriali, scuole, negozi e botteghe, feste, sagre, cinematografi, teatri, eventi sportivi, ogni tipo di attività escluso l’essenziale. La necessità di fermare il contagio per quanto possibile e la migliore capacità di organizzazione che indubbiamente oggi abbiamo rispetto a momenti nel passato che hanno visto epidemie simili hanno portato ad una condizione collettiva mondiale mai accaduta prima. Il mondo umano si è fermato per un po’. Verificare se questo fatto porti a conseguenze di intensità significative sullo stato dell’ambiente a livello globale presenta vari motivi di interesse in vista della scelta delle strategie da adottare per scongiurare la crisi climatica: innanzitutto la possibilità di diminuire gli apporti degli inquinanti emessi, poi una sorta di esperimento collettivo (forzato) direttamente misurabile. 

Lo studio in oggetto, dal titolo  “Current and future global climate impacts resulting from COVID-19” (“Impatti sul clima globale correnti e futuri risultanti dal Covid-19”, scaricabile all’indirizzo in calce) esamina le conseguenze della riduzione dei gas ad effetto serra e degli altri inquinanti dell’aria dovuta al lockdown sulle tendenze abituali e stima l’entità delle riduzioni nel periodo da febbraio a giungo 2020. Alcuni composti con effetto riscaldante, come gli NOx (ossidi di azoto), calano del 30%, ma la diminuzione viene compensata da un’analoga diminuzione degli ossidi di zolfo che indeboliscono la capacità degli aerosol di raffreddare l’atmosfera. Il clima è un sistema complesso, con decine di variabili ad effetti diversi, e spesso di segno opposto, legate tra loro, con cicli di vita diversi ed effetti indiretti, e i risultati non sono per nulla facili da trovare, tanto che si usano modelli matematici per simulare gli andamenti dei parametri più importanti. Questi modelli matematici hanno comunque dimostrato da tempo la loro affidabilità. In buona sintesi, lo studio in oggetto sostiene che gli effetti della chiusura globale dovuta alla pandemia da Covid-19 sulla temperatura media globale siano trascurabili: un raffreddamento valutato intorno al centesimo di grado Celsius al 2030, quasi niente.  Spingendosi poi ad analizzare percorsi diversi, emerge che se scegliessimo di stimolare l’economia in senso “verde” e in misura definita “moderata” potremmo arrivare ad emissioni zero per il 2060, mentre se optassimo per un investimento maggiore, ma comunque fattibile, nell’economia verde potremmo raggiungere una diminuzione del 50% delle emissioni climalteranti al 2030 rispetto allo scenario base ed emissioni zero al 2050. La differenza principale fra le ultime due opzioni riguarda il fatto che la seconda, la più performante, consentirebbe con una probabilità superiore al 50% di limitare la crescita della temperatura a +1,5°C, ovvero di attuare la scelta più restrittiva raccomandata nell’Accordo di Parigi del 2015. Tradotto in termini semplici: possiamo farcela, ma occorre una ripresa fortemente orientata all’innovazione a basso impatto ambientale, con un impegno collettivo che includa i Paesi più poveri e i Paesi più ricchi e potenti, come gli Stati Uniti. Come la pandemia di Covid-19 la crisi climatica riguarda tutti, nessuno escluso.

La Natura che occupava nuovamente spazi durante la chiusura forzata di quasi tutte le attività umane ci ha mostrato, per un tempo breve, quale sorta di impatto abbiamo noi sul mondo. L’eccezionalità del caso ci ha portato per un attimo a vedere chi siamo noi sulla Terra, come la prima foto della Terra dallo spazio ci portò a vedere di colpo quanto piccolo, limitato e isolato fosse il nostro mondo. La possibilità di ridurre le conseguenze delle attività umane sui sistemi naturali, ed in particolare di contenere quanto possibile il riscaldamento globale, viene oramai mostrata e descritta da una serie di studi scientifici molto chiari circa le scelte da fare. In poche parole, non sarà un ritorno al passato, non sarà una chiusura delle attività, a salvarci, ma una scelta precisa delle politiche da porre in atto.

La pubblicazione scientifica citata può essere scaricata al seguente indirizzo (in inglese):

https://www.nature.com/articles/s41558-020-0883-0.pdf




giovedì 6 agosto 2020

6 agosto 1945 Hiroshima, tre giorni dopo, Nagasaki

Una mattina di agosto come tante, in una città ovviamente abitata da civili in tempo di guerra, una guerra con episodi di violenza e distruzione mai visti. Certo, aveva anche i suoi bersagli militari, ma si dice che venne scelta perché ancora integra, non colpita dai bombardamenti. Una mattina di 75 anni fa, il 6 agosto 1945, alle ore otto e un quarto, sul cielo della città giapponese di Hiroshima si aprono le porte dell’inferno.
A circa 600 metri di altezza esplode un ordigno con la potenza di oltre 13.000 tonnellate di tritolo, la colonna di fumo e polveri generata si innalza in breve tempo fino a 17.000 metri di altezza, l’onda d’urto solleva interi edifici dal suolo come fossero foglie d’autunno spazzate dal vento, il calore di centinaia di migliaia di gradi scioglie le cose, letteralmente dissolve le persone, polverizza tutto quanto si trova intorno, un vento rovente spazza ciò che resta. Poco tempo dopo, una pioggia nera e viscida cade al suolo, portando con sè una pletora di elementi radioattivi che vanno a fissarsi nel terreno, nell’acqua, sopra ogni cosa. Il fall out radioattivo. 
Gli elementi radioattivi: di certo non erano fra i pensieri di uomini, donne, e bambini quella mattina di agosto in un città qualsiasi del Giappone. Scoperta dal fisico francese Henry Bequerel, e dai coniugi Pierre e Marie Curie, alla fine del diciannovesimo secolo, la radioattività diventa presto uno dei campi di studio della fisica più interessanti, anche se il percorso da lì alla fissione dell’uranio è abbastanza complesso. Alcuni minerali mostravano la proprietà di impressionare le lastre fotografiche  che, una volta sviluppate, presentavano delle zone scure. Il fenomeno accadeva anche al buio. Alcuni elementi, come l’uranio, il polonio, il radio, producono infatti emissioni di radiazioni (fotoni o particelle) in modo del tutto naturale a causa dell’instabilità del nucleo del loro atomo.  La trasformazione di un atomo radioattivo in un altro atomo viene denominata decadimento radioattivo, e può avvenire in tempi molto diversi, il “tempo medio” può essere di una frazione di secondo o di miliardi di anni.
Ebbene, la radioattività è fortemente nociva per l’uomo e per gli altri esseri viventi, per l’ambiente in generale; lo è anche quella che si riscontra in natura. Provocarla e diffonderla è un atto criminale. Ciascuno può naturalmente elaborare il proprio giudizio sull’uso bellico delle armi nucleari; nel caso in questione, il Giappone venne costretto alla resa con il bombardamento atomico di Hiroshima, e tre giorni dopo, di Nagasaki, due città abitate. Si stimano 80.000 morti immediate, a cui seguirono 60.000 morti in breve tempo per le conseguenze sanitarie dell’esplosione, e molte altre migliaia nel corso degli anni, a causa dell’inquinamento radioattivo. Soltanto ad Hiroshima. A Nagasaki si stimano altre 80.000 vittime. E’ impossibile una stima definitiva, dato che le radiazioni continuano nel tempo a far ammalare le persone e le conseguenze possono durare anche molto a lungo. Le bombe furono sganciate per decisione del Presidente Truman, da poco succeduto a Roosevelt, al fine di determinare la resa del Giappone. Gli Stati Uniti sono ad oggi l’unico Paese ad aver fatto ricorso alle armi atomiche durante una guerra. 
Una recente ricerca descrive il ritrovamento nei tessuti di crostacei di carbonio 14, radioattivo, a livelli tali da mostrarne l’origine nella detonazione di bombe nucleari. Dove? Nei fondali della Fossa delle Marianne, il luogo più profondo dei mari terrestri, 11.000 metri sotto la superficie, situata nel Pacifico tra il Giappone e la Nuova Guinea. Possiamo ora affermare che non soltanto l’inquinamento generato dall’uomo ha raggiunto ogni angolo della Terra, poli compresi, ma anche la violenza, l’orrore, volutamente attuati dall’uomo hanno raggiunto ogni dove, inclusa la profondità oceanica e i gamberetti che vivono laggiù.
Negli anni ‘50, ‘60 e ‘70 era normale una quota di radioattività nell’aria (che non si è mai del tutto spenta) dovuta ai test nucleari effettuati in atmosfera. Il deserto dell’Ovest degli Stati Uniti, alcune zone del Kazakistan e Novaja Zemlja per l’allora URSS, gli atolli (!) francesi nel Pacifico sono stati teatro delle prove delle armi più distruttive mai create. Poi, si è passati ai test sotterranei. In totale, quante volte? Più di duemila volte.  A cosa servono? A distruggerci, appunto. 
Dopo la terribile esperienza di Hiroshima e Nagasaki non si è certo pensato di smettere: al contrario, sono state costruite nel corso degli anni decine di migliaia fra bombe o testate missilistiche nucleari, tutte più potenti delle prime, sono state prodotte migliaia di tonnellate di uranio arricchito e plutonio, e gli Stati che ambiscono a possedere le armi più distruttive di sempre non hanno mai cambiato orientamento. Ai Paesi che ufficialmente possiedono armi nucleari, USA, ex-URSS, Cina, Francia, Regno Unito, si sono aggiunti Israele, India, Pakistan, e forse Corea del Nord.  Sono stati siglati degli accordi di riduzione delle armi atomiche fra USA e URSS, ora Russia, ma gli arsenali odierni sono più che sufficienti a farci sparire dalla faccia della Terra, con tutto ciò che ci sta intorno.

Molte di queste considerazioni sono già state fatte, più volte nel tempo. Ma non è inutile ripeterle, perché sulle nuove generazioni pesa un fardello di cui troppo spesso non sono consapevoli. Il dibattito sul nucleare segue andamenti oscillanti, a volte accende l’attenzione, poi per lunghi periodi scompare dai radar, a parte le celebrazioni ogni anno dell’attacco nucleare al Giappone al termine della Seconda Guerra Mondiale. Ci stringiamo alle vittime ed alle loro famiglie, ai superstiti. E non dimentichiamo la minaccia a cui siamo continuamente esposti. 

Per saperne di più, e per seguire il tema, il Bulletin of the Atomic Scientists (in inglese) è il punto di riferimento più autorevole. L’indirizzo web è il seguente:


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