giovedì 9 dicembre 2021

Se il nucleare è decisivo va dimostrato con i numeri

 Torna in auge il nucleare e credo sia opportuno richiamarne alcuni aspetti, in un’ottica scientifica e assolutamente non ideologica. Posizioni preconcette su temi tecnici e scientifici portano soltanto a dibattiti sterili, ne è una prova in questo periodo il dialogo che ruota attorno al Covid e alla necessità di vaccinare o meno quante più persone possibili. Riprenderò il tema in fondo all’articolo cercando di estenderlo su un piano più generale.


Si parte da una domanda essenziale: dato che il futuro sarà elettrico, ovvero la forma energetica prevalente con cui faremo quasi tutto sarà l’elettricità, diverrà indispensabile ricorrere alle centrali nucleari? Vale a dire, per alimentare motori industriali, piastre a induzione, ovviamente treni, illuminazione, elettrodomestici e tutto quanto è già elettrico, ma soprattutto l’enorme parco auto, moto, bus che elettrico lo diventerà, sarà necessario ricorrere alla fonte nucleare, che produce energia elettrica e non emette CO2? 

L’insieme delle fonti energetiche in Italia oggi è costituito da fonti fossili tradizionali in parte maggioritaria, da fonti rinnovabili, e da una quota limitata di importazioni dall’estero che include anche l’energia nucleare proveniente dalla Francia e dalla Svizzera, ma allo scopo di contenere le emissioni di CO2 e altri composti climalteranti ci si orienta verso una riduzione della quota fossile e un corrispondente aumento della quota rinnovabile. Se l’intero parco veicolare sarà convertito nei modelli elettrici, sarà sufficiente la produzione attuale - su cui si agisce contestualmente per ridurne la parte fossile - o sarà necessario un aumento della produzione di elettricità? Un eventuale aumento coperto da rinnovabili, o da altro? 

Si tratta del punto centrale, il perno su cui ruota il destino energetico del nostro Paese.

Il fatto che un convegno alla Camera il prossimo 15 dicembre definisca già nel titolo “Il nucleare decisivo per la transizione energetica”, proponendone al lettore le conclusioni prima dell’inizio, con la partecipazione di parlamentari e ministri, mostra con evidenza che una parte degli attori coinvolti vede un possibile ritorno del nucleare in Italia come una delle vie da percorrere. 


Impianti nucleari andrebbero ad incrementare la potenza elettrica a disposizione.  

La potenza efficiente lorda di generazione, al 31 dicembre 2020, è risultata pari a 120 GW, con un incremento di 1GW che ha causato un leggero aumento del +0,9% rispetto al dato dello scorso anno, in quanto l’entrata in esercizio di nuovi impianti, compresi termoelettrici di piccola taglia, ha compensato le grandi dismissioni e i depotenziamenti nel parco di generazione tradizionale - traggo dai Dati Statistici di Terna, pubblicati con regolarità e reperibili sul sito - mentre la potenza richiesta in Italia è sempre al di sotto di 60 GW. 

Queste chiarissime informazioni ci dicono due cose: una, che la potenza installata è circa il doppio del carico maggiore che si registra, un fatto ben noto da anni ma mai chiarito completamente essendo costituito dalla parte preponderante di generazione fossile tradizionale, due, che le dismissioni delle centrali più tradizionali e impattanti procedono col contagocce pur se beneficamente compensati da impianti più moderni. E’ giusto avere una riserva di potenza adeguata ad un Paese come l’Italia, ma il doppio sembra troppo. Aggiungere potenza nucleare significa aumentare ulteriormente la disponibilità, e come minimo occorre aver fatto bene i conti per capire se risulta necessaria oppure no prima di procedere ad un investimento ingente.

Sul fronte delle rinnovabili, sono ancora una quota minoritaria, pur se aumentata notevolmente negli anni, e devono aumentare per coprire le dismissioni degli impianti obsoleti tradizionali. 

Ma non c’è solo la produzione, risulta in effetti particolarmente importante il modo in cui si consuma l’energia, e in questo caso l’elettricità. Aumentare l’efficienza e azzerare gli sprechi di qualcosa che è sempre oneroso produrre è l’altra linea da seguire, perché comporta minori necessità di materia prima a parità di servizio. 


Esiste anche la possibilità che il nucleare sia per alcuni una scelta, un’opzione per rientrare nel sistema. A questo proposito, va ricordato il nucleare cosiddetto di Quarta Generazione, spesso citato.  Si tratta di un insieme di progetti tesi a rendere più economico e sicuro il reattore nucleare, a cui partecipano anche industrie e centri di ricerca italiani. I nuovi reattori allo studio presentano modifiche che intervengono su vari fronti, come la sicurezza, la taglia, il costo, ma sono a tutti gli effetti reattori nucleari a fissione, vale a dire basati sullo stesso concetto di tutte le centrali realizzate a partire dalla pila di Fermi del 1942. Non presentano nulla di radicalmente nuovo, soprattutto sul fronte del problema forse maggiore che riguarda la fissione, ovvero la produzione di scorie radioattive pericolose, che rimangono tali per periodi lunghissimi. Non abbiamo ancora realizzato un deposito sicuro adeguato per le scorie ad alta radioattività che possediamo; tornare al nucleare significherebbe produrne altre. Le caratteristiche geologiche del nostro Paese non aiutano in questo senso: non c’è un chilometro quadrato che non sia sismico, non abbiamo il deserto ma una stretta penisola densamente abitata, abbiamo vulcani e faglie ovunque, dove le aree non sono coltivate o industrializzate sono montagne. 

Il nucleare più innovativo rimane la fusione, ma questa è un’altra storia, ancora allo stadio di ricerca, lontano da una possibile applicazione commerciale. 


Questi sono pochi, semplici fatti, per un argomento che richiederebbe approfondimento migliore. La tendenza a parlare per pre-concetti, o pre-giudizi, è devastante in questo campi, perché finisce per instillare poco alla volta nozioni non verificate che poi diventano costruzioni fantasiose. Per decidere se “dobbiamo” tornare al nucleare nella fase della transizione ecologica dell’economia occorrono i numeri, ancora meglio occorrono scenari alternativi realistici fra cui scegliere con obiettività. L’unica possibilità che abbiamo per prendere decisioni funzionali al benessere della collettività riguardo temi idonei all’indagine scientifica è, appunto, la scienza. Si tratta dello strumento migliore che ad oggi siamo riusciti a costruire per comprendere il mondo naturale. Nel caso, è utile per organizzare la difesa da un virus che il nostro sistema immunitario non conosce, per esempio. Oppure, è utile per costruire strumenti tecnici che svolgano funzioni opportune, come produrre energia, per esempio. La medicina non è deterministica, e da tempo non lo è più neanche la fisica, ma restano comunque le migliori costruzioni umane in divenire in rapporto al mondo; non conosciamo ad oggi alternative che non siano fantasie. 

Non esiste nessuna scienza di regime, la comunità scientifica è internazionale, connessa, aperta nei suoi studi e nei suoi risultati. Sembrava scontato, ma ora sappiamo che non lo è, il Covid ha aperto una voragine di disinformazione che inghiotte anche persone colte, ma che non deve mettere a rischio il metodo scientifico. Per fortuna, il governo ha operato rispetto alla pandemia mantenendo fermo il punto principale, accantonando il pensiero magico alla base della parte migliore, per così dire, delle proteste, e operando con una progressività idonea a far comprendere l’entità del problema. 






sabato 4 dicembre 2021

Quasi mille contratti di lavoro in Italia: é giunto il momento che il Partito Democratico lanci un’iniziativa politica?

 Secondo il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), sono attualmente vigenti in Italia 985 Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (Ccnl), depositati presso il CNEL stesso al 30 giugno scorso. La cifra cambia regolarmente con una crescita costante nel corso del tempo. Dei 935 dell’anno scorso, secondo CGIA di Mestre, ben 351 sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale, vale a dire 4 su 10, precisamente il 37,5 per cento del totale. 

Un record, una selva contrattuale in cui si fatica a vedere se vengono rispettati i diritti più elementari. Se è chiaro che la libertà sindacale va garantita, è altrettanto chiaro che si tratta spesso di sigle sindacali inesistenti, create allo scopo, che vanno a firmare contratti nazionali con regole al ribasso in ogni ambito, riduzione dello stipendio, limitazione dei diritti più elementari, aumento della precarietà, differenziazione uomo-donna, contrazione delle norme per ls sicurezza sui luoghi di lavoro - e sappiamo quanto è grave il problema visto che non passa giorno che non ci informino dell’infortunio o del decesso di qualcuno sul luogo di lavoro. 

Non basta certo lamentarsi, occorre un intervento politico. Quindi, una domanda: perché il PD non si intesta un’iniziativa politica per normare la rappresentanza sindacale nel senso che i sindacati più rappresentativi possano siglare contratti validi per tutti? Che porti, in qualche modo, alla possibilità di verificare cosa accade nella selva dei contratti di lavoro, e ridurre, ordinare, chiarire l’intero settore?

Olaf Scholz è il nuovo Cancelliere tedesco ed ha già espresso alcuni interventi chiari del suo prossimo governo, fra cui il salario minimo a 12 euro. E’ giunto il momento anche per noi per un’iniziativa politica riconoscibile, chiara, su cui investire, riguardante il mondo del lavoro?







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